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Cesare Pavese, il fuoco sacro dell’urgenza di scrivere e la cenere di parole sparse anche, tra i gelsomini, a Brancaleone

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«Qui i paesani mi hanno accolto umanamente, spiegandomi che, del resto, si tratta di una loro tradizione e che fanno così con tutti. Il giorno lo passo “dando volta”, leggicchio, ristudio per la terza volta il greco, fumo la pipa, faccio venir notte; ogni volta indignandomi che, con tante invenzioni solenni, il genio italico non abbia ancora escogitato una droga che propini il letargo a volontà, nel mio caso per tre anni. Per tre anni!» .

Lo scrittore piemontese Cesare Pavese descrive così l’esperienza di confinato a Brancaleone nella lettera al suo professore Augusto Monti. «Studiare è una parola; non si può niente che valga in questa incertezza di vita, se non assaporare in tutte le sue qualità e quantità più luride la noia, il tedio, la seccaggine, la sgonfia, lo spleen e il mal di pancia. Esercito il più squallido dei passatempi. Acchiappo le mosche, traduco dal greco, mi astengo dal guardare il mare, giro i campi, fumo, tengo lo zibaldone, rileggo la corrispondenza dalla patria, serbo un’inutile castità», prosegue ancora nella missiva. 

Lo zibaldone – di leopardiana memoria –  è quello che lo scrittore piemontese inizia a scrivere il  6 ottobre 1935 a Brancaleone.
 «Che qualcuna delle ultime poesie sia convincente, non toglie importanza al fatto che le compongo con sempre maggiore indifferenza e riluttanza. Nemmeno importa molto che la gioia inventiva mi riesca qualche volta oltremodo acuta. Le due cose, messe insieme, si spiegano coll’acquisita disinvoltura metrica, che toglie il gusto di scavare da un materiale informe, e insieme interessi miei di vita pratica che aggiungono un’esaltazione passionale alla meditazione su certune poesie».  

Immerso nei paesaggi brulli e selvaggi della Calabria, lambito dal calore degli abitanti, Cesare Pavese sancisce il suo passaggio dalla lirica a alla prosa: pur continuando a comporre poesie della raccolta, pubblicata nel 1936, “Lavorare Stanca”, egli inizia anche a stendere il suo diario, trovato in una cartella gialla dalla sorella Maria e pubblicato postumo nel 1952 con i caratteri dell’Einaudi, con il titolo “Il mestiere di vivere”; in queste pagine racconta la sua esistenza, dal suo arrivo in Calabria, nell’agosto del 1935, fino alla morte suicida, il 27 agosto del 1950. L’ultima pagina del diario risale a dieci giorni prima, recando la data del 18 agosto* di quell’anno.

Tra i fogli del diario, ritrovati nella casa della sorella Maria, sita in via Lamarmora, dove lo scrittore viveva, anche tre biglietti autografi:

«L’uomo mortale Leuco’ non ha che questo di immortale il ricordo che porta e il ricordo che lascia». 

«Congedo dal mondo sulla prima pagina bianca del tempo 

Perdono tutti e a tutti chiedo perdono». 

«Ho cercato me stesso». 

Maurizio Cossa, figlio di Maria Luisa, una delle due nipoti dello scrittore ha dichiarato che le citazioni erano appunti della sorella dello scrittore, Maria, e delle sue figlie. La sua testimonianza – “Un marziano a Torino” – è contenuta nel saggio “Cesare Pavese – Vita colline libri” di Franco Vaccaneo (Priuli & Verlucca 2020), uscito nel luglio scorso.

«C’è un parallelismo tra questo mio anno e la considerazione della poesia (…) l’unità del poema non consiste nelle scene madri, ma nella sottile corrispondenza di tutti gli attimi creativi. Vale a dire, l’unità non deve tanto alla costruzione grandiosa, all’ossatura identificabile della trama quanto all’abilità scherzosa dei piccoli contatti, delle riprese minute e quasi illusorie, alla trama dei ritorni insistenti sotto ogni diversità.

Che cosa soffro in lei? Il giorno che alzava il braccio sul corso asfaltato, il giorno che non venivano ad aprire e poi è comparsa con i capelli scossi, il giorno che parlava piano con lui sull’argine, le mille volte che mi ha fatto fretta.

Ma questa non è più estetica, sono lamenti. Volevo elencare i bei minuti ricordi, e non ricordo che spasimi.

Via, servono lo stesso. La mia storia di lei non è dunque fatta di grandi scene, ma di sottilissimi momenti interiori. Così un poema dev’essere. E’ atroce questa sofferenza», scrive ancora il 28 febbraio 1936 nella sua ultima pagina di diario vergata in Calabria. 

Piemontese, nato a Santo Stefano Belbo (Cuneo), appassionato di lingua inglese e letteratura anglo-americana, si laurea con una tesi su “La interpretazione della poesia di Walt Whitman” presso la facoltà di Lettere e Filosofia di Torino nel 1930.  

Carattere introverso e solitario, emblema delle repressione del Ventennio, che travolge anche chi, come lui, pur non essendo direttamente impegnato in attività antifasciste non è militante nel Fascio, Cesare Pavese è tra i più grandi scrittori del Novecento italiano. Anche editor, traduttore e insegnante, è autore di molte opere tra le quali  “Lavorare stanca” (1936) per la poesia e “La bella estate” (Premio Strega 1950), “Paesi tuoi”(1941), ‘’La casa in collina’’ (1949), “La luna e i falò” (ultimo romanzo pubblicato in vita nel 1950), per la prosa. 

Gli costa le antipatie del regime e quella perquisizione alla quale segue la condanna al confino, la sua amicizia stretta con intellettuali antifascisti di spicco quali Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Massimo Mila e Giulio Einaudi, figlio del futuro presidente della Repubblica Luigi Einaudi e fondatore della casa editrice di cui Pavese dirigr la sede romana negli anni’40 e che è erede della rivista “Cultura”, soppressa dal Fascismo nel 1936. Così Pavese collabora con intellettuali della statura di Giaime Pintor, Elsa Morante, Elio Vittorini, Italo Calvino, Natalia Ginzburg. 

Da uomo e letterato non allineato al regime fascista viene confinato in terra calabrese. Condannato a tre anni di confino, poi ridotti a sei mesi, arriva Brancaleone Calabro il 3 agosto del 1935 e vi resta fino al 15 marzo 1936, quando scrive sul suo diario solo due parole: “Finito confino”. Uno stile laconico e poi l’immediato ritorno in Piemonte. 

Ad esporlo è anche la sua attività di traduttore e di appassionato alla letteratura straniera, dunque non un’attività rivoluzionaria violenta. Alla base della sua accusa, poi divenuta condanna nel maggio 1935, il ritrovamento presso la sua abitazione di una lettera di Altiero Spinelli, già detenuto per motivi politici, in verità rivolta a Tina (Battistina) Pizzardo, donna di cui lo scrittore è innamorato e per difendere la quale non smentisce mai le accuse legate a quella missiva in realtà non destinata a lui. Donna che al suo ritorno in Piemonte trova sposata con un altro. 

A Brancaleone gli è negato il sussidio perché non ritenuto indigente, lui già traduttore di Melville, Joyce, Dickens, Defoe, Faulkner, solo per citarne alcuni; così in Calabria impartisce lezioni di latino e greco per vivere. Tra i suoi allievi anche un certo giovane Martelli, scomparso alcuni anni fa . Durante quei mesi si reca a Bovalino per conoscere lo scrittore Mario La Cava. 

Su quella scrivania, che rivolge le spalle alle ferrovie, al mare e ai gelsomini, campeggiano scritti e appunti che poi confluiscono nel diario “Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950”, («È bello scrivere perché riunisce le due  gioie: parlare da solo e parlare a una  folla»).  A scandire la sua vita in Calabria, la lettura, “il tedio di chi sa tutto del mare”, la struggente nostalgia per la “donna con la voce rauca”, Tina Pizzardo, per la quale è confinato e che gli frantuma il cuore. 

Viva è oggi la memoria della prestigiosa permanenza nel comune jonico di Cesare Pavese che in paese tutti chiamavano “U prufissuri” e che leggeva il giornale al Bar Roma. Dentro quel bar ancora esistente, foto e articoli di giornale ricordano questo illustre passaggio. Un uomo di cultura, giunto in manette in punta allo stivale, reietto dal regime perché intellettuale libero, cui l’amministrazione di Brancaleone ha intitolato anche la Biblioteca comunale. 

Dopo le prime notti in una stanza sopra il celebre Bar Roma della cittadina ionica, a Cesare Pavese è data una stanza dove oggi si conservano ancora i suppellettili e dove lui scrive e impartisce lezioni.  

L’edificio**, sito al numero 117 di Corso Umberto I° a Brancaleone, in cui si trova la stanza davanti alla quale scorrevano i binari ed il mare e in cui Pavese soggiorna, da oltre un decennio è di proprietà di un calabrese doc, originario di Brancaleone ma bancario a Messina, Tonino Tringali. Legato a questa terra e alla sua storia, Tonino Tringali non manca di custodire anche queste pagine e finalmente, dopo decenni di oblio, una targa ricorda l’illustre soggiorno dello scrittore piemontese in quella casa. Un tributo alla sua Città e anche alla memoria del padre Giuseppe Tringali che pure desiderava ciò, come attesta la Porta Pavese che realizzò con le sue mani e che adesso adorna il cortile interno all’edificio, visitabile da turisti e appassionati e cornice di numerose iniziative culturali.  

Tra queste particolarmente emozionante è stato l’incontro svoltosi nel 2016, su impulso del circolo culturale Guglielmo Calarco di Reggio Calabria e della Pro Loco di Brancaleone, in memoria di Gianni Carteri e del suo constante e appassionato tributo alla Calabria, alle sue bellezze, ai suoi luoghi spesso segnati da calamità e abbandoni, alla sua gente, ai suoi scrittori per origini  o per  storia, come Cesare Pavese. A lui aveva dedicato il volume, edito da Rubbettino nel 2015, “Memorie al confino. Pavese, Brancaleone e altri miti” che Gianni Carteri, scomparso proprio in quell’anno, fece in tempo solo a vedere stampato. 

Proprio la casa in cui Pavese aveva vissuto durante il suo esilio, e di cui Tonino Tringali sempre generosamente tiene aperte le porte, ha ospitato l’incontro dal titolo “Il bambino che chiuse il paese. Incontro con Gianni Carteri”, in memoria di quel momento del 1958 quando, a soli sei anni, Gianni bambino dovette lasciare il paese natio di Brancaleone vecchio, segnato rovinosamente da sismi e alluvioni, per trasferirsi a Bovalino. 

Di coloro che possono ricordare “u Prufissuri” – così Pavese veniva chiamato per la sua dedizione ai libri – perché ne erano amici o lo frequentavano (don Oreste Politi, Tommaso Manglaviti), oggi a Brancaleone non sopravvive alcuno. Importanti testimonianze, oggi irripetibili, sono state raccolte in tempo da una troupe giunta in Calabria alcuni anni fa nell’ambito di un progetto, finanziato dalla Film Commission dalla Regione Piemonte, che ha portato alla produzione, per la regia di Matteo Bellizzi, del docuweb “A Sud di Pavese”. Anche cortometraggio “Il Confino di Cesare Pavese” (1967) diretto da Giuseppe Taffarel (https://www.youtube.com/watch?v=wZxYi6xwvR0) è dedicato al suo esilio in Calabria. 

Uno spettacolo teatrale della compagnia Agorà, ormai ferma da oltre un decennio, inoltre ha messo in scena per la prima volta in Calabria “Il vizio Assurdo” il dramma di Davide Lajolo e Diego Fabbri, ispirato proprio alla vita di Pavese che così definiva l’esistenza, «un vizio assurdo», appunto. 

Un altro progetto sempre piemontese ha valorizzato il patrimonio epistolare che Cesare Pavese ha scritto in Calabria con la corrispondenza intrattenuta con la sorella Maria e amici come Mario Sturani, Adolfo Ruata e Augusto Monti, Alberto Carocci e Carlo Frassinelli; a quest’ultimi due scriveva per motivi professionali. La pubblicazione (edizioni dell’Orso di Alessandria) è stata curata nel  2010 da Mariarosa Masoero, direttrice del Centro studi “Guido Gozzano-Cesare Pavese” dell’Università di Torino, dove sono custoditi i manoscritti e le carte dello scrittore. Si tratta del “Quaderno del confino”, che il critico letterario Lorenzo Mondo definisce «il romanzo epistolare di Pavese». Lui e Italo Calvino, rispettivamente nel 1956 e nel 1966, avevano pubblicato per Einaudi due raccolte di lettere postume (“Lettere 1924-1944” e “Lettere 1945-1950”). 

Sospeso tra le sue langhe desolate e quei colori selvaggi e quei visi cotti dal sole, lui originario di Santo Stefano Belbo, in provincia di Cuneo, dove era nato il 9 settembre 1908 e dove oggi ha sede la Fondazione che porta il nome dello scrittore e che propone un itinerario tematico nei luoghi pavesiani: il nuovo museo Pavesiano, la Chiesa sconsacrata dei SS. Giacomo e Cristoforo – luogo in cui Pavese era stato battezzato – e la Casa natale, in cui i genitori trascorrevano le villeggiature estive e che nel tempo è stata trasformata smarrendo la sua dimensione contadina segnata da vigne, rive e colline, che aveva nutrito l’ispirazione e la penna dello scrittore.

«Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti», scrive, infatti, nell’ultimo romanzo pubblicato in vita, “La Luna e i falò” (1950). 

Lungo il parallelismo tra la Calabria e il Piemonte, Brancaleone e Santo Stefano Belbo e Torino, lo consumano lo sradicamento e l’inquietudine dai quali mai riesce ad affrancarsi. 

Non lo guarisce il profumo di gelsomino che invade la sua vista da quella stanza volta ai binari e, al di là di essi, al mare. 

«L’immobile estate era trascorsa in un lento silenzio, come un solo pomeriggio trasognato. Di tanti visi, di tanti pensieri di tanta angoscia e tanta pace non restavano che vaghi increspamenti, come i riflessi di un catino d’acqua contro il soffitto». A Stefano, il personaggio autobiografico del romanzo “Il carcere”, di cui il mare ed i gelsomini calabresi rappresentano le pareti e l’orizzonte, scritto tra il 1938 e il 1939 e pubblicato nel 1948 unitamente a “La casa in collina” in “Prima che il gallo canti” – per altro titolo del film calabrese diretto dal regista catanzarese Mario Foglietti negli anni Novanta – Pavese affida la descrizione del tempo trascorso da confinato politico in un paese del profondo Sud. Per i personaggi si ispira anche a gente del luogo, a persone realmente esistite e conosciute, come Elena e “Concia”, al secolo Concetta Delfino, della quale lo attrae l’aspetto selvaggio, morta nel 2002 a Brancaleone Calabro. 

Dopo pochi mesi arriva il momento di rientro in Piemonte, a Torino, dove ad attenderlo c’è la cocente delusione sentimentale causata dalla scoperta del matrimonio di Tina Pizzardo. La donna che ha protetto al prezzo della sua libertà, ha scelto un altro uomo. Quella delusione che non è l’ultima. Riprende le sue attività di editor, traduttore e scrittore, consacrandosi per il suo stile essenziale e poetico. Nel dopoguerra si iscrive al partito Comunista e, collaborando presso la redazione de “L’unità”, conosce Italo Calvino. Nonostante i riconoscimenti e le pubblicazioni, non si placano la sua inquietudine e il suo tormento esistenziale.  

Tante, troppe le ferite del cuore e dell’anima: il suo amore tradito, il ricordo cocente di un esilio immeritato, la sua fede politica vissuta fino ad un certo punto, l’umorismo tragico, l’inguaribile disperazione, l’inestirpabile radice di solitudine lo condannano al lavorio del tarlo del suicidio. Quel lavorio giunge a compimento il 27 agosto 1950, nella stanza numero 346 dell’hotel torinese di nome “Roma”, come il bar calabrese dove si recava sovente. Aveva quasi 42 anni.  

Si suicida dopo la stagione del trionfo, un mese dopo aver vinto il premio Strega con “La bella estate”. Nella sua ultima primavera scrive «Verrà la morte e avrà i tuoi occhi». Un’altra grande delusione d’amore è, infatti, l’incontro con l’attrice americana Constance Dowling – «colei che scrisse l’ultima parola tra me e le donne» – che conosce quello stesso anno. Nuovi tremori e nuovi tormenti d’amore per una donna lo respinge. Un altro amore infelice. Un rifiuto che rende insostenibile quel macigno che già sopporta da anni, da quando, per l’amore non ricambiato da Tina Pizzardo, gli è rimasto addosso quell’enorme peso dell’insicurezza. Un altro abbandono, un altro amore sfuggente al quale non è riuscito a sfuggire, una ferita mai rimarginata che si riapre e dalla quale sgorga nuova angosciosa inquietudine.

Quell’estate Pavese vince il premio Strega ma è un trionfo senza vita poiché il bilancio di quel 1950 è come un «consuntivo di un anno non finito e che non finirà». “Ci fu sempre un’ombra nelle sue parole come fosse un sovrano delle Lettere che non sapeva più che farsene del suo regno”, racconta Paolo di Paolo nella puntata televisiva del “Fuoco sacro. Il talento e la vita” (2019) dedicata a Cesare Pavese. 

«Morire, se proprio si deve con valore, con clamore. Restare insomma. L’Amore è tanto prepotentemente vita che sparendo in lui la vita sarebbe affermata anche di più Non ci si uccide per amore. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla», scrive Pavese sul suo diario il 23 e il 25 marzo 1950.

Natalia Ginzburg di lui scrive che “gli restava da conquistare la realtà quotidiana”. Non gli bastano carta e inchiostro. E’ come un adolescente invecchiato incapace di stupirsi. 

Si condensa nelle ultime righe della lettera che Pavese scrive, in quell’ultima estate del 1950, a Pierina – così lui chiama Romilda Bollati, sorella dell’editore Giulio e ultimo amore vissuto in Liguria a Bocca di Magra – lo sguardo amaro sulla sua vita:

«Non si può bruciare la candela dalle due parti. Nel mio caso l’ho bruciata tutta da una parte sola e la cenere sono i libri che ho scritto». 

Le sue parole sono cenere, dunque, e la sua vita avvolta dalle fiamme di quel fuoco sacro che è l’urgenza di scrivere per ogni scrittore. Quando quel fuoco, così totalizzante e catalizzatore di una intera esistenza, si spegne non resta che la fine, annunciata in quelle ultime parole del suo diario:

«Più il dolore è determinato e preciso più la vita si dibatte e cade l’idea del suicidio (…) Non parole. Un gesto. Non scriverò più», 18 agosto 1950*.

 

Di Anna Foti 

Tratto dal blog Carta Bianca del circolo culturale Rhegium Julii

 

**Si tratta di un immobile di 1000 metri quadrati appartenuto alla famiglia D’Agostino di Bovalino. Il medico pediatria residente a Roma fu il suo ultimo proprietario. Costui, morto alla fine degli anni Novanta senza figli, lasciò tutto alla governante la signora Edda Savo che mise in vendita l’edificio. Nel 2001 Tonino Tringali ha acquistato l’immobile. 

INFO VISITE: 347-0844564 (Pro Loco di Brancaleone)

  

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