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ALLA SCOPERTA DEI MULINI DI BRANCALEONE

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Vi sono luoghi che ci narrano di epoche lontanissime a noi, realtà  fatte di persone, di fatica e di duro lavoro e sacrifici. Brancaleone nel suo complesso e un ricco macrocosmo florido di testimonianze del passato. Quel passato, che non è certo del tutto scomparso, forse è stato solo dimenticato.

Il comprensorio Brancaleonese è contraddistinto da una grande ricchezza di rinvenimenti archeologici a partire da Neolitico fino al passaggio di Greci e Armeni. Non sfugge al nostro interesse anche quella parte più vicina al nostro tempo (si fa per dire…), ed è l’archeologia industriale, che a partire dagli antichi  palmenti rupestri e frantoi e fino all’era del “gelsomino” caratterizza questo territorio, le antiche distillerie ormai sono ridotte a vetusti fabbricati su cui hanno infierito vegetazioni parassite ed anche un certo sciacallaggio che ha cancellato quel che restava.

Con questo articolo tenteremo di portarvi alla scoperta di un’altra realtà, che forze fino ad oggi non ha destato molto interesse, ma che a mio avviso merita un attento approfondimento. Stiamo parlando dei mulini ad acqua presenti sul torrente Ziglia-Altalìa. La località in questione si trova stretta tra le due colline alle spalle della cittadina costiera di Brancaleone.

Il torrente con i suoi 9km di lunghezza, affronta un dislivello medio di 300mt che dai piani di Campolico (tra i comuni di Staiti e Brancaleone) riscendendo verso la costa  taglia letteralmente in due le colline di Monte della Guardia (su cui poco distante sorge l’antico abitato di Brancaleone) e  Serro del Cacciatore (su cui poco distante sorge la piccola frazione ormai disabitata di Pressocito).

Proprio lungo le sponde del torrente partendo da località Frischìa seguendo il greto del torrente dopo qualche centinaio di metri si giunge presso una delle briglie del torrente ancora visibili, lungo la quale affiorano tra la vegetazione di macchia mediterranea resti murari di quello che s evidenzia essere un antico mulino ad acqua, ovviamente in pessimo stato di conservazione, poiché probabilmente ha subito nel tempo varie piene che hanno violentato questo corso d’acqua, oggi sollevato di almeno 5/6 metri.

Proseguendo sempre verso l’interno del torrente e attraverso le gole che pian piano cominciano a stringersi, si giunge in un località conosciuta ancora con il toponimo di “zzarrùnina” dove sulla sponda destra si scorge un antico mulino. Si tratta di un fabbricato che come viene evidenziato dalle immagini ancora è possibile ammirare la torre o saetta dell’acqua.

La prima cosa che salta all’occhio è sicuramente la Saetta che consentiva all’acqua che mediante un canale di convoglio proveniente dalla zona di pesca dell’acqua arrivava fino alla bocca per precipitare poi da un’altezza di circa 5-6 metri fino all’inserzione della macina di pietra in basso che si azionava grazie alla forza dell’acqua.

Foto: Massimo Collini

Ancora è evidente la macina in pietra all’interno di un ambiente che doveva essere il luogo della sfarinatura. Poco distante infatti, alcune baracche ci fanno presupporre una vita che qui ha continuato se pur non con assidua frequenza, fino a qualche decennio addietro.

ATTORNO AI MULINI C’E’ UNA STORIA ANTICHISSIMA;

Negli antichi villaggi rupestri, come nella vicina Brancaleone vetus, abbiamo rinvenuto tra gli ambienti domestici; scavi circolari nella pietra e delle piccole macine di pietra locale, che servivano molto probabilmente per la “molinatura domestica”.

In tempi lontani a noi, si macinava ogni tipo di granaglia perché molto spesso non vi erano luoghi in prossimità degli abitati in grado di macinare il grano. Queste piccole macine sono state anche rinvenute anche fra i ruderi delle case diroccate di Brancaleone vecchio.

Solo nell’alto medioevo nacquero i mulini ad acqua, delle vere e proprie industrie del grano, che talvolta servivano vasti territorio e paesi limitrofi. Macine che in un primo momento funzionavano a mano o con l’aiuto degli animali, ma che in un secondo momento,  con l’invenzione del meccanismo ad acqua, iniziarono a sorgere vicino ai corsi d’acqua.

Nel caso specifico dei mulini di Brancaleone, essi sorsero molto probabilmente intorno alla prima metà dell’ottocento.

Sin dall’antichità l’uomo ha avuto bisogno di sfarinare qualsiasi tipo di cereale, ha usato sempre una sua fedele alleata: la pietra facilmente reperibile in natura, si è servito per le sue molteplici funzioni quotidiane. Dalle semplici e primitive “macine” azionate dalla forza delle sue braccia, gradatamente si passò alle macine più grandi, azionate a mano oppure con l’aiuto degli animali.

Come abbiamo detto in precedenza, si macinava ogni tipo di cereale per estrarre dal cuore dei semi la materia prima essenziale per essere trasformata poi in cibo. Grano, granoturco, orzo, avena, ceci, ghiande, castagne e ogni altro tipo di cereali fornivano il necessario sostentamento alle persone, alle famiglie ed anche per gli animali d’allevamento che avevano un ruolo fondamentale nella vita e nella piccola società rurale del paese. Molto spesso infatti, ritroviamo attorno a questi mulini ambienti che fungevano da stalle per l’alloggio degli animali, in quanto il grano veniva trasportato servendosi  di asini o in certi casi anche di vacche.

La farina che usciva dal mulino insieme alla crusca conosciuta con l’appellativo di “canighjia” una volta portata a casa, veniva setacciata, ed erano le donne designate a svolgere questo compito. Spesso la caniglia era anche una delle fonti primarie delle famiglie povere dal quale si poteva produrre il pane. La caniglia poi, miscelata con foglie di olmo, pezzi di zucca o di barbabietole veniva anche utilizzata come alimento per i maiali.

UN PO DI STORIA:

Innanzi tutto occorre dire che il termine latino “molina”, da cui deriva la parola “mulino” era connesso all’etimo  “mola”, termine con cui si indicava la macina. Tertulliano (scrittore latino nato a Cartagine nel 160 d.C. e morto nel 220) indica la mola con l’espressione “molinum saxum”.
Occorre anche rilevare che l’attività della molitura nel corso della storia è stata regolata da tasse e tributi imposte dai Signorotti ed i proprietari degli impianti. Vi era l’imposta sul macinato, che fu poi ripristinata nel 1862 da “Quintino Sella” (Ministro delle Finanze del Regno d’Italia). Questo provvedimento è stato contestato ancor prima di entrare in vigore nel 1869 perché colpiva principalmente le classi rurali più povere e i ceti più deboli. Legge che fu poi abolita nel 1883.

IL FUNZIONAMENTO DI UN MULINO:

L’acqua veniva captata nel punto dove entrava in un canale fabbricato portandola fino all’altezza necessaria fino alla torre (o saetta), questa precipitando per circa 5-6 mt attraverso la forza della sua caduta azionava la macina.  Un asse sosteneva la ruota, che girava su di un perno metallico arrotondato trasmettendo la rotazione grazie alla forza dell’acqua in caduta.

Occorre anche rilevare che  spesso i mulini lavoravano “a cascata” ovvero;  l’acqua dopo aver fatto funzionare quello più a monte, veniva ricaptata per far funzionare quello successivo (spesso situato a poche centinaia di metri) e così via via.  Si trattava di un “mutuo usufrutto”, che consentiva la rigenerazione del patrimonio naturale, sfruttato per il fabbisogno collettivo. Della serie; “non si sprecava nulla”!

Tale pratica però, non era regolata da leggi, e questo spesso sfociava in liti e diverbi tra i mugnai.

Quando necessario si deviava l’acqua del vallone costruendo uno sbarramento in muratura e, attraverso una roggia artificiale, che seguiva l’andamento naturale del fianco della collina, raggiungeva un invaso di accumulo costruito in terra battuta o in muratura mista. Dall’invaso o “torre”, collocato sempre a monte dell’impianto a circa 10 metri di altezza, l’acqua precipitava con forza e con potenza ad azionare le pale della ruota idraulica, quasi sempre in legno di quercia. Il cunicolo di caduta dell’acqua, chiamato “saetta”, era di solito costituito da una serie di anelli concentrici in pietra ed era rotondo; era più largo in prossimità dell’invaso, al quale era collegato con un canale che andava progressivamente restringendosi fino in prossimità delle pale della ruota idraulica che azionava la macina. Il mulino del torrente Ziglia era dotato di una saetta a base rettangolare. Alla base di questa c’era una grossa macina. Il meccanismo, era azionato dall’interno del mulino.

L’acqua poi defluiva dalla galleria per essere riutilizzata dall’altro mulino più a valle o in alcuni casi. La fuoriuscita del grano dalla tramoggia era regolata da meccanismi semplici e passava attraverso il foro centrale della macina ruotante, raggiungendo la zona di molitura del palmento. L’ asse che attraversava la ruota idraulica ruotava su di un perno metallico arrotondato e incastrato in un apposito alloggiamento (indicato con l’appellativo “fuso”).

L’asse è sempre verticale rispetto alla direzione della corrente e su di esso, tramite una grossa “zeppa” ad elica inserita in un’apposita scanalatura era direttamente fissata la macina che ruotava su una parte fissa alla stessa velocità delle pale, che sfarinavano tutto ciò che veniva versato nella tramoggia.

La ruota simile a quella di un carro, aveva un diametro di circa un metro e mezzo: ovviamente più grande era la ruota più aumentava la potenza e la capacità di macinazione del mulino. Essa era situata orizzontalmente in fondo ad una stanza larga quanto bastava per contenerla.

Spesso per la costruzione delle macine veniva impiegata pietra locale, solo in qualche caso la macina era assemblata con vari pezzi tenuti insieme da cerchi metallici. Esse somigliavano ai raggi della ruota di un carro, erano leggermente incurvate e intercalate da scanalature più piccole, in modo da facilitare la fuoriuscita della farina.  Le macine di tanto in tanto richiedevano manutenzione molto rigorosa, e dovevano essere rimosse con grossi assi di legno, smontate e portate fuori dall’ambiente di lavoro per essere ribattitura con appositi martelli a doppia punta piatta con piccole protuberanze, atte a scalfire e rendere ruvida la pietra. Finita l’operazione , la macina veniva ricollocata al suo posto, non prima di aver fatto la “riequilibratura” dell’intero impianto. Solitamente questo era un compito a cui era designato il mugnaio.

ASPETTI ECONOMICI E CULTURALI

Al mulino si pagava quasi sempre in natura, il mugnaio infatti tratteneva qualche chilo di farina necessaria per sfamare la sua famiglia, a volte veniva venduta o magari veniva data al padrone dell’impianto: u Mulinaru era quasi sempre un conduttore in affitto e pagava al proprietario l’usufrutto. E si sa ,che i mugnai non godevano fama di onestà, perchè spesso erano soliti rubacchiare qualche chilo di farina.

I mulini rappresentano la memoria storica dei piccoli centri rurali, dove la coltivazione del grano e la sua trasformazione in farina e prodotti secondari ha rappresentato per secoli una delle poche fonti di economia e sostentamento delle famiglie e degli abitanti dei paesi e delle campagne circostanti.

In questo territorio, dove un tempo l’attività della molinatura e la semina dei campi a grano, dove la povertà non conosceva certo esigenze di mercato, ma solo quella necessità di sopravvivere ad ogni costo per sfamare la famiglia. E’ qui, che si perdono le memorie, in quei fragili ruderi, celati da rovi e spine che sono stati dimenticati dall’uomo moderno. Quell’uomo che, non deve certo dimenticare quell’antica radice che, come una ruota si consuma come il tempo.

Occorre dunque, perpetrare quella “riequilibriatura” tra il passato ed il presente, prima che il futuro cancelli ogni memoria di quei fasti del tempo, che possono oltremodo rappresentare un vero e proprio tesoro per le generazioni che verranno dopo di noi.

 

Carmine Verduci

 

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